In termini filosofici, parlare di brand sarebbe come parlare del noumeno di Kant: non esiste la cosa in sé ma solo le infinite percezioni che di essa possiamo avere. Cos’è davvero un brand? In che modo si definisce all’interno di un contesto tanto complesso come quello della società dei consumi?
Il brand e la brand image
Qui non si parla dell’aspetto giuridico, secondo cui la definizione di marchio si fa lineare e univoca. Dal punto di vista sociale, relazione, esperienziale, il marchio è una serie di aspettative, promesse, sensazioni, evocazioni che l’utente si prefigura e che associa a un logo, a un prodotto, a un payoff. Il brand si configura nell’immaginario pubblico, nelle narrazioni di un ufficio stampa in provincia di Milano e nei commenti di una web agency di Roma, si alimenta con i commenti sui social e nei confronti tra gente comune per strada; è un rimando a un’idea che, di volta in volta, necessita di essere richiamata, confermata o disattesa, a seconda delle aspettative e del sentire comune.
Non si può parlare di identificazione totale tra brand e brand image, certo. D’altra parte, l’immagine del marchio scandisce la percezione di esso diffusa in mezzo alla gente, il modo di avvertire un prodotto o servizio e di correlarlo, quasi in automatico, a tutto un sistema di simboli, valori e stili di vita. Il marchio è ciò che esso fa intendere, è il bacino di associazioni che da esso derivano e che diventano una discriminante tra acquisto e rinuncia.
Ecco perché, in un senso ampio, il brand in sé non esiste ma esistono le infinite proiezioni che di esso si possano avere. Lì sta la bravura del pubblicitario, del Pr, del content manager: nel definire una serie di strumenti e di attività dirompenti a tal punto da stabilire un contatto tra marchio e utente, un’idea di auto-determinazione forte abbastanza da fare breccia nelle sensazioni comuni, convincente da essere ricordata, seducente da spingere all’acquisto.
No Comments Found